Guido Guidi: «Ogni fotografia è un atto devoto verso il mondo»
Claudia Rocchi CESENA. Nel romanzo di formazione alla fotografia del cesenate Guido Guidi
(1941), l’America con i suoi artisti è stata un riferimento. Il “Premio
Hemingway” di Lignano Sabbiadoro che il maestro Guidi riceve oggi 27
giugno per la seconda volta è dunque coerente con la sua storia
d’artista (la cerimonia è on line alle 18.30, su www.premiohemingway.it e
altri social). Gli viene consegnato per l’opera In Sardegna 1974 – 2011
(Mack Londra); la giuria l’ha definita «Di intensa letteratura
fotografica nella quale risalta l’ideologia culturale dell’autore, teso a
rappresentare l’identità sociologica e antropologica di un
territorio…». Nato e cresciuto a Ronta di Cesena dove ancora vive, Guidi
dopo il liceo artistico a Ravenna si iscrisse allo Iuav di Venezia e
successivamente al Corso superiore in Disegno industriale.
Dall’architettura il suo interesse si orientò sempre più alla
fotografia. Attività questa che ha intensificato con progetti di ricerca
legati alla trasformazione della città e del territorio per i quali si è
distinto nel mondo. Guidi, questo Premio Hemingway la riconduce agli anni della sua formazione cominciata da pittore ed esplosa nella fotografia. «Ho
dipinto fino ai primi anni ’70, anche nello studio del pittore cesenate
Amedeo Masacci. Il mio riferimento assoluto era Paul Klee. La mia
storia passò dal figurativo delle scuole medie allo stile più informale
del liceo, in voga in quegli anni. Un giorno il professore Alberto
Fabbri, dopo aver esaminato un mio progetto di una semplice casa rurale
inserita nel contesto paesaggistico, mi disse: “Lei Guidi è uno dei
pochi che potrebbe fare l’architetto”. Così mi iscrissi ad Architettura a
Venezia». Quel suo progetto agli albori sarebbe divenuto il casotto distintivo di tante sue fotografie. «Non
ci avevo pensato ma è così, già in quei primi progetti c’era in me
l’idea di fare architettura unendola alle radici del luogo. Mi formai
negli anni in cui da professori come Bruno Zevi apprendevamo
dall’America l’architettura organica, il cosiddetto “vernacolare”,
termine con cui si definiva anche lo snapshot, l’istantanea semplice a
cui pure mi dedicai. Il vernacolare fa dunque parte della mia storia». Lei cita spesso i suoi insegnanti. «Sì
perché mi hanno aiutato a diventare quel che sono. Pure nato in
campagna, figlio di falegname, ho avuto il privilegio di professori
straordinari, voce dell’America: Bruno Zevi, Luigi Veronesi, Italo
Zannier, Carlo Scarpa che ci diceva “non lavorate per la bellezza ma a
fianco della necessità. Imparate dagli alberi che protendono i rami
verso il sole. Non fate le cose per l’estetica”. Anche Klee lo afferma». L’estetica
per i profani è un elemento di valore di una fotografia; le sue
immagini di luoghi extraurbani non colpiscono “positivamente” un
osservatore che posta foto paesaggistiche sui social o chi si occupa di
costruzioni. «Ricordo quando fui invitato a Bologna
all’Ordine degli Architetti e mostrai foto di casotti di contadini in
lamiera. Il presidente commentò: “Siamo confusi perché lei Guidi ci
mostra foto di capanni, fatte con estrema cura, che noi vorremmo
abbattere”. Dunque eseguire quelle foto accuratamente è servito a
mettere un tarlo, a intervenire nell’estetica di qualcun altro. È una
vecchia storia, palazzi principeschi e casupole: i primi entrano nei
libri di architettura, le seconde no». Chi scrive libri e fa critica d’arte ha responsabilità verso la fotografia? «Tanta.
Nelle nostre università i corsi di fotografia sono entrati solo di
recente, nei college americani sin dai Sessanta. In Italia c’è
ignoranza, in cultura nella fotografia, disciplina che richiede
consapevolezza, conoscenza, formazione. Ricordo ancora quando storici
dell’arte come Giulio Carlo Argan ci parlavano di Impressionismo
tralasciando che negli stessi anni nasceva anche la fotografia in
Francia. Io stesso fui deriso a Venezia con il refrain “tu vuoi fa’
l’americano ma sei nato in Italy”. Così mentre artisti e fotografi
americani si occupavano dei distributori di benzina, noi fotografavamo i
monumenti». Oggi però le mostre fotografiche sono molto diffuse. «In
realtà sono spesso mostre fotografiche “gridate”; i mass media
favoriscono coloro che Italo Zannier chiamerebbe artisti “lusinghieri”,
come Raffaello nella pittura e Steve McCurry nella fotografia». Il
suo fresco libro “Lunario 1969/1999” (Mack Londra 2020) con immagini
dei suoi primi lavori, a differenza dei casotti è entrato più facilmente
nel cuore anche di chi non è colto in fotografia. «Ho avuto
il dubbio di essere stato troppo “lusinghiero” (sorride). Poi mi sono
confortato perché contiene immagini scattate quand’ero completamente
affrancato dai committenti. La luna è in tanti miei lavori ma in Lunario
è più evidente. È un libro dunque che potrebbe aiutare a capire ciò che
ho fatto dopo. Ogni fotografia però è un atto devoto verso il mondo,
anche verso le cose squinternate. Ma se la persona non riesce a vederle
come il fotografo, allora è un problema». Bisogna quindi studiare la fotografia per imparare a vedere oltre l’estetica? «La
fotografia ci parla del nostro presente ma al tempo stesso
dell’archetipo, dell’origine. Eraclito ci insegnava che la bellezza
apollinea è l’accenno, non il teatro dei McCurry, l’arte accennata però
dev’essere compresa. Apollo teneva l’arco e la lira, due opposti, come
nella vita. La bellezza riguarda la vita, l’estetica è un’invenzione
degli storici dell’arte».