Saturday, November 27, 2010

Io Sono Wang Bing


Wang Bing, l altra Cina
di Daniela Persico*

Il festival milanese dedica la retrospettiva al regista nome di punta delle nuove generazioni cinesi, in gara all'ultima Mostra di Venezia con «The Ditch». Scopriremo così anche in Italia i suoi film, da «Tie Xi Qu: West of the Tracks» a «Heng Feng Ming» e «Coal Money», un provocatorio work in progress tra memoria e presente sul paese asiatico
La città fabbrica e il campo concentrazionario sono i due poli entro i quali si muove il cinema di Wang Bing: luoghi cardine della riflessione novecentesca, si intrecciano nell'opera di un artista visivo in grado di unire una consapevole idea politica a uno sguardo che sostiene l'umano, nella sua precaria esistenza. Il suo primo film, Tie Xi Qu: West of the Tracks (Tie Xi Qu, 2003), si è imposto sulla scena internazionale grazie alla partecipazione, ancora work in progress, alla Berlinale e, in seguito, ai maggiori festival dedicati al cinema documentario. L'opera monstre di Wang Bing offre uno sguardo originale su una Cina poco conosciuta, fuori dagli schematismi globalizzati che riducono ogni Paese a una luccicante fiera delle vanità. Niente «luccica» nei suoi film: non esistono metropoli ipermoderne (la loro presenza è soltanto evocata), i suoi uomini sono ricoperti di terra, polvere e fuliggine, il lavoro è svuotato del suo scopo (la produzione). Il mondo di Wang Bing è concentrazionario in quanto tutto sembra ruotare attorno alla fine, alla morte come unico sbocco produttivo: il percorso cominciato con gli operai di West of the Tracks, che con il loro lavoro, non pagato e spesso infruttuoso, tengono in vita una struttura fatiscente, porta lentamente - attraversando una teoria di opere in itinere - verso i campi di rieducazione di The Ditch (Jiabiangou, 2010, presentato alla 67° Mostra d'arte cinematografica di Venezia), dove le fosse scavate dai «dissidenti di destra» sono quelle in cui dormono, vengono reclusi e infine - nella miglior sorte possibile - verranno deposti i loro cadaveri. Il campo diventa qui, come nelle più alte riflessioni al riguardo, la metafora del sistema produttivo novecentesco, di una politica diventata biopolitica, in cui - come scrive Foucault - il corpo dell'individuo è la posta in gioco delle strategie di potere (vedere l'introduzione di Giovanni De Luna a David Rousset, L'universo concentrazionario, Baldini&Castoldi, Milano, '97). E proprio sui corpi si posa lo sguardo del cineasta che nei sei anni di ricerche per la preparazione del film ha ribadito il valore della testimonianza come unica via per la sopravvivenza e il recupero della memoria, imprescindibile necessità per prendere parte al presente.
Il cinema di Wang Bing non ci svela soltanto l'altra faccia della Cina, mostrando l'immagine della propria terra, lo Shaanxi (regione d'origine di molti registi della sua generazione, tra cui anche Jia Zhangke); non si impegna esclusivamente nel far arrivare in Europa la cultura cinese più antica, legata alla terra, ai valori senza tempo e alle tradizioni, capace ancora di resistere alla commercializzazione e alla modernizzazione più sfrenata. Le sue opere sono distanti da un certo documentario sociale, pronto a gareggiare con il giornalismo e sfruttare eventi di risonanza internazionale: ci parlano di lavoratori che si ritrovano senza impiego e senza casa (West of the Tracks), di uomini isolati (Man with No Name, 2009) e di donne che resistono ad un passato terribile (Fengming, A Chinese Memoir, He Fengming, 2007), di piccoli commercianti in cerca di fortuna (Coal Money, 2009) o di operai al lavoro in postazioni isolate dal mondo (Crude Oil, Caiyou riji, 2009), di bambine orfane abbandonate in un paesino di montagna (Happy Valley, 2009). Questi ritratti del popolo cinese sono svolti in opere capitali per comprendere le strutture che hanno dominato il Novecento e la resistenza dell'uomo all'incedere del mutamento.
Esempi privilegiati della sua ricerca sono alcuni lavori commissionati da fondazioni e gallerie d'arte: Fengming, Crude Oil, Man with No Name, a tutti gli effetti studi, schizzi preparatori, che trovano nella loro semplicità la completezza di un'opera aperta, di un continuo work in progress che rifiuta ogni codificazione e ogni fine.
Proprio qui risiede la grandezza dell'opera di Wang Bing, che come tutto il cinema resistente al mercato supera i confini tra fruizione artistica e cinematografica: la sua instancabile ricerca nel continuo assottigliare la distanza tra il cinema e la vita, tenendo viva la tensione impossibile su cui si basa fin dalle origini l'arte cinematografica. «Più vero del vero» è la frase ricorrente per ogni opera che ha saputo spingersi più in là, creando un nuovo rapporto tra le istanze enunciative in gioco. E Wang Bing lavora proprio in questa direzione, facendo proprie le suggestioni del neorealismo, ridiscutendo i tempi della visione cinematografica, scegliendo oculatamente la strada del digitale (...).
L'estetica del cinema di Wang Bing, che si confronta con la spinta verso l'autenticità di molti film d'inizio millennio, sa rimodellare il rapporto che istituisce con il reale, basandosi innanzitutto sul semplice principio delle «immagini fatto»: i suoi film sono costituiti da piani sequenza che abbracciano l'arco di un avvenimento. Sono le corrispondenze create dalla giustapposizione delle sequenze a creare una traccia narrativa nelle nove ore di West of the Tracks, in cui lo spettatore mette in relazione (nei tempi privati e bui in cui si ricostruisce la visione filmica) quelle che Bazin definisce le forze centrifughe dell'immagine. Ci si trova di fronte, come nella vita, a una tessitura di eventi che potenzialmente hanno pari densità di senso, mai ridotti a un uso strumentale, sempre caricati dal tempo dello sguardo del regista di un valore proprio. Siano i corpi degli operai o le strutture delle fabbriche, la videocamera di Wang Bing registra nella pasta granulosa del digitale un tutt'uno, in cui gli uomini incarnano realmente la fatiscenza dello stabilimento industriale e al contempo la sua struttura sociale, che continua a vivere fuori dal tempo dettato dalla Storia nelle loro menti. Le lunghe soggettive del distretto industriale fantasma, ripreso dalle cabine di pilotaggio delle locomotive che lo attraverso, diventano l'immagine sintetica della tensione tra uomo e tempo perduto: nell'implacabile incedere del treno (e dello sguardo) il paesaggio scorre veloce e sembra aver inghiottito ogni presenza umana, aver totalmente assorbito la vita degli operai tanto da poterne rilasciare le emozioni nella mutevolezza delle luci e dei colori. Forse proprio nell'espressività che acquistano le traversate di West of the Tracks possiamo riconoscere il legame profondo tra Wang Bing e Michelangelo Antonioni, uno dei suoi ispiratori, che del trasformare le situazioni umane in condizioni geofisiche ha fatto la propria peculiarità (...).
Nell'immobilità dei corpi, nei momenti in cui l'uomo riposa e la macchina (poco importa che sia la fabbrica o la videocamera) continua a girare, lo spettatore è chiamato a scegliere la propria posizione, come suggeriva Rossellini in tempi lontani da visioni performative. Le opere di Wang Bing si rivolgono a uomini disposti a confrontarsi con la memoria del Novecento nella convinzione che fare i conti la Storia implichi un atteggiamento onesto e consapevole nel guardare a se stessi. Spettatori chiamati a condividere un cinema che li imprigiona e al contempo li richiama a destarsi. A prendere coscienza del tempo che implica un reale cambiamento.
Confrontandosi con un panorama culturale sempre più sfuggente, la rigorosa presenza del cinema di Wang Bing ci ha spinto ad aprire verso l'Oriente le annuali retrospettive del festival Filmmaker, scegliendo di dedicare al regista ... un omaggio integrale delle sue opere e la prima monografia europea.
* Daniela Persico, curatrice del libro «Wang Bing. Il cinema nella Cina che cambia», da cui è tratto il saggio, è critico cinematografico e cineasta
Il Manifesto 17 novembre 2010

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