Sunday, September 13, 2009

Ahmadinejad, Berlusconi e Darfur, Israele einfine Pynchon

Ahmadinejad, Berlusconi e l'era post-democratica
Slavoj Zizek
[25 Giugno 2009]

Un'analisi del filosofo sloveno sulla sollevazione di Tehran: non bisogna leggere il movimento iraniano come pro o contro l'Occidente. Piuttosto, esso dimostra che nel mondo islamico ci sono ancora forze sociali vive e capaci di auto-organizzarsi. Non ricoscoscerle significa abbandonarsi al cinismo.

Quando un regime autoritario approda alla crisi finale, di solito la sua dissoluzione segue due passi. Prima del collasso, si verifica una misteriosa rottura: tutto all’improvviso le persone sanno che il gioco è finito, e semplicemente non hanno più paura. Non solo il regime perde la sua legittimità, il suo potere stesso viene percepito come un’impotente reazione di panico. Tutti conosciamo le classiche scene dei cartoni animati: il gatto raggiunge il precipizio ma continua a camminare, ignorando il fatto che non ha la terra sotto i piedi; comincia a cadere solo quando guarda in basso e si accorge dell’abisso. Quando perde la sua autorità, il regime è come un gatto sul precipizio: sta per cadere, e ha solo bisogno che gli si ricordi di guardare in basso.
In «Shah in Shah», un classico racconto della rivoluzione di Khomeini di Ryszard Kapuscinski, si colloca il preciso momento di questa rottura: a un incrocio di Tehran, un manifestante si rifiuta di spostarsi quando un poliziotto gli ordina di muoversi, e il poliziotto imbarazzato si limita a voltarsi di spalle; in un paio d’ore, tutta Tehran seppe dell’accaduto, e sebbene ci fossero scontri in strada che continuavano da settimane, ognuno seppe che la partita era finita. Sta accadendo adesso qualcosa di simile?
Ci sono molte versioni sui fatti di Tehran. Alcuni vedono nelle proteste il culmine del «movimento riformista» a favore dell’Occidente, sulla scia delle «rivoluzioni arancioni» di Ucraina, Georgia, eccetera – una reazione secolare alla rivoluzione di Khomeini. Costoro supportano le proteste come il primo passo verso un nuovo Iran liberaldemocratico, liberato dal fondamentalismo musulmano. Sono contraddetti dagli scettici che pensano che davvero Ahmadinejad ha vinto davvero: lui è la voce della maggioranza, mentre il supporto a Mousavi arriva dal ceto medio e dalla sua gioventù dorata. In breve: scacciamo le illusioni e affrontiamo il fatto che, con Ahmadinejad, l’Iran ha il presidente che merita. Ci sono poi quelli che liquidano Mousavi come un membro dell’establishment religioso, con differenze solo apparenti con Ahmadinejad: Mousavi vuole proseguire col programma energetico nucleare, è contrario al riconoscimento di Israele, in più ha ricevuto il pieno appoggio di Khomeini come primo ministro ai tempi della guerra contro l’Iraq.
Infine, i più tristi di tutti sono quelli che supportano Ahmadinejad da sinistra: la vera posta in palio sarebbe per loro l’indipendenza dell’Iran. Ahmadinejad ha vinto perché ha combattuto per l’indipendenza del paese, smascherato la corruzione delle élite, e utilizzato le ricchezze petrolifere per incrementare il reddito della maggioranza dei poveri – questo è il vero Ahmadinejad, ci dicono, oltre l’immagine dei media occidentali di un fanatico negazionista dell’Olocausto. Seguendo questo punto di vista, ciò che sta davvero accadendo in Iran è una replica dell’abbattimento di Mossadegh del 1953: un golpe finanziato dall’Occidente contro un presidente legittimo. Questa lettura non solo ignora i fatti: l’alta affluenza alle urne – dal 55 per cento all’88 per cento – si spiega solo con il voto di protesta. Ma mostra anche la cecità nei confronti di una genuina dimostrazione della volontà popolare, assumendo con condiscendenza che per gli arretrati iraniani, Ahmadinejad va benissimo, non sono sufficientemente maturi per avere una sinistra secolare.
Per quanto opposte, tutte queste interpretazioni leggono le proteste iraniane come scontro tra integralisti islamici e riformisti liberali pro-Occidente, che è il motivo per cui hanno difficoltà a collocare Mousavi: si tratta di un riformista spalleggiato dall’Occidente che chiede libertà personali ed economia di mercato o un membro delle gerarchie religiose la cui eventuale vittoria non influenzerebbe seriamente la natura del regime? Queste oscillazioni così estreme mostrano che nessuna delle letture di cui sopra ha capito la vera natura della protesta.
Il colore verde adottato dai sostenitori di Mousavi, le grida «Allah akbar!» che rimbombano dai tetti di Tehran al calare della sera, indicano nitidamente che questi si vedono in continuità con la rivoluzione di Khomeini del 1979, come ritorno alle sue origini, cancellazione della corruzione che ne è seguita. Questo ritorno alle radici non è solo nelle rivendicazioni; riguarda piuttosto il modo in cui la folla agisce: l’enfatica unione della gente, la loro solidarietà onnicomprensiva, l’auto-organizzazione creativa, l’improvvisazione nei modi di articolare la protesta, l’accoppiata unica di spontaneità e disciplina, come la minacciosa marcia di migliaia di persone in completo silenzio. Stiamo avendo a che fare con una sollevazione popolare genuina da parte dei delusi dalla rivoluzione di Khomeini.
Dobbiamo trarre un paio di conseguenze cruciali da questo quadro. Innanzitutto, Ahmadinejad non è l’eroe dei poveri islamici, ma un corrotto islamico-fascista populista, una specie di Berlusconi iraniano la cui mescolanza di pose da clown e spietata gestione del potere sta causando disagio persino presso la maggioranza degli ayatollah. La distribuzione demagogica di briciole ai poveri non ci deve ingannare: dietro di lui non ci sono solo gli organi di polizia e un apparato di public relations molto occidentale, ci sono anche i nuovi ricchi, il risultato della corruzione di regime [la Guardia rivoluzionaria iraniana non è una milizia operaia, ma una mega-coroporation, il più forte centro di potere del paese].
Inoltre, bisogna tracciare una differenza tra i due candidati principali opposti ad Ahmadinejad, Mehdi Karroubi e Mousavi. Karroubi è effettivamente un riformista, fondamentalmente propone la versione iraniana della politica identitaria e promette favori a tutti i gruppi particolaristi. Mousavi è completamente diverso: si batte in nome della resurrezione del sogno popolare che ha sostenuto la rivoluzione di Khomeini. Anche se questo sogno era un’utopia, bisognerebbe riconoscere in esso l’utopia della rivoluzione. Significa che la rivoluzione del 1979 non può essere ridotta a un’insurrezione integralista, si trattava di molto di più. E’ il momento di ricordare l’incredibile effervescenza dei primi anni dopo la rivoluzione, con l’esplosione mozzafiato di creatività sociale e politica. Il solo fatto che questa esplosione è stata soffocata dimostra che la rivoluzione era un autentico evento politico, una momentanea apertura che ha scatenato una forza di trasformazione sociale inaudita, un momento in cui «ogni cosa sembrava possibile». Quello che seguì è stata una chiusura graduale tramite la presa del potere dell’establishment islamico. Per metterla in termini freudiani, le proteste di questi giorni sono il «ritorno del rimosso» della rivoluzione khomeinista.
E, last but not least, ciò significa che c’è un potenziale di liberazione nell’Islam, per trovare un «Islam buono» non c’è bisogno di tornare all’anno Mille, ce l’abbiamo giusto qui, davanti a noi.
Il futuro è incerto, con ogni probabilità chi starà al potere conterrà l’esplosione popolare, e il gatto non cadrà nel precipizio ma riguadagnerà la terra ferma. Comunque, non sarà più lo stesso regime, ma un governo autoritario e corrotto tra gli altri. Qualunque sia l’esito, è di vitale importanza che teniamo a mente di aver assistito a un grande evento emancipatorio che non rientra nello schema della lotta tra liberali pro-Occidente e fondamentalisti anti-Occidente. Se il nostro cinico pragmatismo ci fa perdere la capacità di riconoscere questa dimensione liberatoria, significa che in Occidente stiamo davvero entrando in un’era post-democratica, preparandoci al nostro Ahmadinejad. Gli italiani già conoscono il suo nome: Berlusconi. Gli altri stanno aspettando in fila.

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Darfur, lo zampino d'Israele


Il Mossad dietro ai ribelli darfurini. E agli indipendentisti sudsudanesi

Il mandato di arresto per crimini di guerra e contro l'umanità in Darfur emanato il 4 marzo dalla Corte penale internazionale dell'Aja nei confronti del presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir ha riportato l'attenzione mediatica mondiale sul Paese africano, ricchissimo di petrolio ma ostile all'Occidente. Un'attenzione che però sembra non riguardare i legami tra i ribelli sudanesi del Darfur (anch'essi accusati di crimini di guerra dalla Cpi) e Israele.

Abdel Wahid al-Nur e il Mossad. Poche settimane prima del clamoroso annuncio della Cpi, Abdel Wahid al-Nur, leader del Movimento di Liberazione del Sudan (Slm) - uno dei due principali gruppi ribelli darfurini - era in Israele per partecipare all'annuale Conferenza di Herzliya sulla sicurezza d'Israele e per incontrare due alti ufficiali del Mossad, i servizi segreti dello Stato ebraico. Oggetto della riunione riservata, secondo il Jerusalem Post, sarebbe stato il contributo dell'Slm alla lotta al contrabbando di armi verso la Striscia di Gaza che, a detta del Mossad, passerebbe proprio dal Sudan. Secondo quotidiano Haaretz, invece, le autorità israeliane si sono rifiutate di rivelare il contenuto della discussione.

Rifugiati darfurini a Tel AvivUfficio Slm a Tel Aviv da un anno. Abdel Wahid al-Nur, che dal 2007 vive in esilio a Parigi, era già venuto in Israele esattamente un anno fa, nel marzo 2008, per inaugurare un ufficio di rappresentanza del suo movimento ribelle a Tel Aviv per aiutare le centinaia di rifugiati politici che hanno trovato protezione in Israele. "Dobbiamo forgiare nuove alleanze, non più basate sulla razza o la religione, bensì sui valori condivisi di libertà e democrazia", dichiarò in quell'occasione Al-Nour. "Il Sudan che sognamo consentirà l'apertura di un'ambasciata d'Israele a Khartoum".

Armi israeliane al Jem via Francia-Ciad? Negli stessi giorni di febbraio in cui il leader dell'Slm era a colloquio con il Mossad, l'altro gruppo ribelle del Darfur, il Movimento per la Giustizia e l'Eguaglianza (Jem), veniva accusato dal governo sudanese di aver ricevuto ingenti quantitivi di armi da Israele attraverso il governo di Parigi e il contingente militare francese schierato in Ciad (Eufor). Secondo Khartoum, solo grazie alle armi israeliane i ribelli del Jem sono stati in grado di conquistare a gennaio la città di Muhageriya.

L'altro fronte caldo: il Sud Sudan. Ma la guerra in Darfur, che dal 2003 ha provocato quasi mezzo milione di morti, non è l'unico problema interno del Sudan.
Sotto la cenere cova anche il conflitto in Sud Sudan, finito nel 2005 dopo ventidue anni e quasi due milioni di morti, ma che rischia di riesplodere in occasione del referendum indipendentista del 2011. In vista di questa eventualità, gli ex ribelli cristiani dell'Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla) che oggi governano la regione di Juba ma non i suoi giacimenti petroliferi (l'85 percento di quelli sudanesi), si stanno riarmando.

Giacimenti petroliferiArmi della 'Faina' agli indipendentisti. A loro, secondo la Bbc, era destinato il carico d'armi (33 carri armati, 150 lanciarazzi e 6 sistemi missilistici antiaerei) che il 12 febbraio la nave cargo ‘MV Faina' ha scaricato al porto di Mombasa, in Kenya, dopo essere stata sotto sequestro da parte dei pirati somali per quattro mesi. Il carico era stato riscattato con il pagamento di 3,2 milioni di dollari da parte del proprietario della nave: l'imprenditore ucraino-israeliano Vadim Alperin, sospettato di essere un ex agente del Mossad.
Attraverso questo stesso canale, il Governo del Sud Sudan (Goss) avrebbe ricevuto altri rifornimenti bellici negli ultimi mesi. Il che non costituisce una novità rispetto al passato: durante la guerra civile lo Spla, oltre ad essere assistito dalle forze speciali Usa, veniva rifornito di armi da Israele, via Etiopia e Uganda.

La corsa all'oro nero del Sudan. Non è un mistero che l'Occidente punti a un cambio di regime a Khartoum per avere un governo sudanese ‘amico' che riveda i contratti petroliferi con la Cina firmati dal presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashir. Le leve che Stati Uniti, Europa e Israele stanno usando per rovesciare il suo regime sono il Darfur e il Sud Sudan, le regioni dove si concentrano i principali giacimenti petrolferi.

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Pynchon: Per un'epica fuorilegge

di Thomas Pynchon

pynchon_simpson.jpg[Prefazione a Stone Junction di Jim Dodge, Grove Press, 1989]

Se accettiamo la nozione che l'utilizzo del potere contro chi non dispone di potere è sbagliato, ne consegue una serie di corollari sufficientemente chiari. Per esempio entriamo in possesso di un criterio che permette di distinguere, come hanno fatto del resto tutti i popoli (ma non sempre i loro governanti), tra fuorilegge e agenti del male, tra extralegalità e peccato. Non è necessaria un'analisi approfondita in merito, è un qualcosa che si avverte nella sua immediatezza drammaticamente impellente. "Ma sono banditi!" gemono indignati i custodi della legge, "banditi motivati unicamente dalla fame di denaro!". Certo. Salvo che, disponendo da un'eternità del criterio di distinzione tra furto e riequilibrio, comprendiamo perfettamente i termini di una transazione in cui i fuorilegge, in qualità di broker dei poveri, risultando molto più esperti nelle arti e nelle tecniche del riaggiustamento karmico, operano un ricarico non superiore a una semplice Iva, ricarico talmente leggero per i loro clienti da risultare a tutti gli effetti accettabile per costoro e tuttavia abbastanza cospicuo da coprire i rischi estremi che si sono assunti, e insomma noi finiamo per amare questa gente, noi adoriamo Rob Roy, Jesse James, John Dillinger, con un'intensità di passione che di solito si riserva ad atti di tifoseria sportiva.

Stone Junction è un'epica fuorilegge per la nostra tardiva epoca di romanticismo corrotto e difettata dignità, con tanto di relativa presenza di usurpatori moralmente degradati e di determinazione delle fazioni detronizzate - sebbene il lettore che si attenda qui l'espressione della nostalgia per gli anni Ottanta oppure - iddio abbia pietà di costui - un ancora più desueto party tra le libidini di droga sesso e rock&roll, dovrebbe essere avvisato che mettendo gli occhi qua dentro, laddove si dà rappresentazione ai più tetri interessi di quel consenso generale ancora in pulsazione ovunque - nonostante l'enorme ammontare del divertimento sensuale - e che si compiace di autoappellarsi "Realtà", mettendo insomma gli occhi qua dentro questo lettore incapperà in oltremodo malefiche truppe mercenarie che trascinano la trama verso sviluppi sgradevolmente mortali.
Una delle molteplici grazie di questo libro risiede nella scelta, da parte dell'autore, di non volteggiare a passo di danza verso latitudini di sogno, restando, piuttosto, consapevolmente ben ancorato nel nostro mondo per come esso si dà, un mondo in cui, come la voce canterina di Pam Tillis ci ricorda in un contesto alquanto differente, basta un niente perché il destino ti volti le spalle.
L'altro giorno per strada ho sentito un poliziotto in una volante che con il suo altoparlante intimava all'auto di un cittadino comune, che gli bloccava il passaggio, di spostarsi: e chiamava il guidatore per nome. Mi sono meravigliato, anche se poi, tentando di condividere la meraviglia con altri mi sono sentito dire, con tanto di spallucce, che era una cosa ovvia di cui non c'era da meravigliarsi, che il nome del guidatore (compresi altezza, peso e data di nascita) dovevano essere stati ottenuti via satellite dalla Motorizzazione, mentre l'agente inseriva nel database delle denunce la targa del veicolo in sosta vietata - e quindi perché meravigliarsi?
Stone Junction è stato pubblicato nel 1989, verso la fine di un'epoca tutto sommato ancora innocente (innocente a modo suo), con il cyberspazio che di lì a poco le sarebbe esploso addosso. A essere sinceri, c'erano già milioni di computer al mondo, ma il fatto è che non erano ancora così connessi tra loro come a breve sarebbero stati. Dati e informazioni, oggi disponibili a chiunque, erano allora accessibili soltanto agli Autorizzati, che tra l'altro non sempre sapevano di possederli o di che farsene. C'era ancora spazio per scorazzare e dimenarsi in assoluta libertà. Il Web era una nazione primitiva, popolata soltanto da una manciata di rozzi pionieri, mezzi matti e perfettamente a conoscenza del minimo dettaglio del territorio che avevano occupato. Vigeva l'onore, le leggi non erano scritte e i fuorilegge, pur essendo difficile definire un fuorilegge in Rete a quei tempi, si contavano sulle dita di una mano. Incominciava soltanto ad affacciarsi la domanda su come evitare o, preferibilmente, scampare la minaccia, invero implicita epperò minacciosa, dell'impietoso controllo assopito nell'attesa che si realizzassero le appropriate prospettive di libertà che il popolo dei computer immaginava allora - domanda alla quale, peraltro, non abbiamo tuttora risposto. Come buttarsi a corpo morto in quell'universo e disporre ancora a pieno delle facoltà mentali - chi ci garatisce rifugio lì nel cyberspazio? E se ce ne restiamo calmi e indifferenti, c'è qualcosa che non verrebbe in qualche modo alterato, cooptato e colonizzato dalle forze del Controllo, che sono quintessenzialmente digitali? Qualcuno sa come si possa realizzare quella che William Gibson ha battezzato "Repubblica del Desiderio"? Se loro fossero a conoscenza di come la si realizza, ce lo direbbero? E così via.
Scoprirete in Stone Junction, oltre alla moltitudine di profezie che regala, una consistente celebrazione di quegli àmbiti della vita che tendono a rimanere motivate dal flusso di mercato, soprattutto al di là dell'universo digitale. Si tratta, credo, di un apax, l'unico esempio di romanzo che consapevolmente disegna un simile scenario. Da allora gli scrittori hanno dovuto fare i conti con le ubiquitarie cyber-realtà che via via sono intervenute a stabilire in qualche modo i termini delle nostre vite (secondo frammentazioni di scale di valore, anzitutto), senza menzionare la messa in questione delle più radicate tradizioni di ogni singolo autore e di qualunque storia che avesse progredito linearmente un passo dopo l'altro, (situazione che Jim Dodge intuiva esplodere di lì a poco e che ha fronteggiato, poichè il romanzo, sempre investendo contro contro la trascinante corrente del mercato, mantiene la sua fede in una nicchia - e chissà, forse questo è un profondo bisogno umano - in cui le modalità di esistenza esprimono valore proprio nel resistere alla tempesta digitale - come per esempio il riservarsi possibilità di ricerca più onorevoli che altrimenti).
Un metodo di resistenza abbastanza popolare è sempre stato quello di continuare a muoversi, cercando non tanto un posto in cui stare riparati, un luogo sicuro e stabile, bensì realizzando una sorta di stato di ambiguità dinamica in cui si ha la possibilità di essere presenti un po' ovunque, lungo le linee del principo di indeterminazione di Heisenberg. Le moderne macchine digitali, tuttavia, si comportano con una velocità sufficiente a individuare con precisione le incertissime ellissi della libertà umana, con una certezza superiore a quella con cui si lascia stabilire la costante di Planck.
Ugualmente irto di difficoltà, per chi desiderasse procedere lungo l'esistenza in forma anonima senza lasciare la minima traccia, è risultato il continuativo assalto contro quello che una volta era il fidato rifugio del denaro contante, cioè solido: la cosiddetta economia non-plastica. Una volta, neanche tanto tempo fa, si poteva passeggiare per le grandi avenue statunitensi e incassare assegni, aprire un conto postale, spedire ovunque somme da capogiro, senza alcun problema. Ora, non più di 750 dollari a botta - e si sta per provvedere ad abbassare anche questo limite. Provvedimento emanato ovviamente per beccare quei mitici Mercanti di Stupefacenti, nulla a che vedere con il torvo e semplice desiderio di disporre di un maggiore numero di informazioni, di maggiore controllo, dico quello che sta al cuore delle maggiori concentrazioni di potere, siano esse governative oppure di corporate private (se proprio desiderate credere in una simile distinzione).
Guardate sul video apparire di botto la schermata iniziale di Windows 95 e pensate: Magia! Ma per coloro che comprendono il sistema ai livelli più profondi, non c'è nessuna magia - tutto quell'incanto si rivela semplicemente come una semplice routine meccanica e ripetitiva. E quello che potremmo persino denunciare come sperpero di tempo prezioso non è dovuto ad altro che alla Tecnologia, che ha scoperto come incidere sulla velocità media della materia a scale dimensionali sempre più piccole (Nnggyyyyow-w-w!, è come Indianapolis laggiù!), affidando tutti i kazilioni di simpatiche istruzioni prive di autonomia a dispositivi sempre più piccoli e veloci.
Tuttavia Stone Junction esprime una fervida lealtà a quell'altro genere di magia, e cioè la magia reale - magia a cui siamo abituati da tempo immemore, esotica al di là di ogni aspettativa, sempiternamente controfattuale, insomma la magia con la M maisucola, non spettacolo avventizio ma impresa esplorativa rischiosa, in questo mondo materiale in cui siamo incastrati, che continua a offrire possibili suggerimenti - o analoghe indicazioni - sul fatto che siamo all'estero o al lavoro - sempre in esso e fuori di esso contemporaneamente.
La tentazione fatale in cui incorre uno scrittore di romanzi, che deve accettare la presenza - spesso necessitata - della magia nel suo lavoro letterario, è quella di risolvere le difficoltà poste dalla trama, dai personaggi e - molto più spesso di quanto si supponga - dal gusto, apportando soluzioni con un supporto di convenienza che spunta all'improvviso, con un amuleto o uno stupefacente ad hoc, che si occpi di ogni problema appena questo sorga. Per nostra fortuna Jim Dodge, per i termini stessi in cui consiste la sua chiamata in correo letterario, non può indulgere in questa peculiare forma di inerte lussuria. Avere a che fare con la magia è un lavoro duro e onorevole, e non lo si può svolgere secondo ghiribizzi personali, o almeno non senza conseguenze.
C'è un momento di rimarchevole crescita esperienziale del personaggio di Daniel Pearse, il protagonista di Stone Junction, il quale inizia a imparare il mestiere e a sviluppare poteri - il che fa di questo romanzo una sorta di Bildungsroman di un mago -, ed è il momento in cui i suoi professori, più o meno eterodossi nei loro metodi di insegnamento, appaiono a Daniel uno alla volta, ciascheduno con differenti compiti iniziatici da superare, tutti connessi a un'organizzazione conosciuta con la sigla di AMO, Alleanza Maghi e Ostili alla legge, sorta di protoWeb che mette in rete attraverso numeri telefonici a pagamento, cassette postali fisiche e fenomeni extraparanormali più che attraverso server e computer - un sistema sorvegliato dall'enigmatico e non del tutto totipotente Volta.
Di traverso a tutto ciò scorre una trama ulteriore - una detection alla "Chi è il colpevole?", in cui Daniel è costretto a risolvere la questione molto terrena e priva di sfumature di chi ha assassinato sua madre, Annalee Pearse, in una stradina di Livermore, in California, quando lui aveva quattordici anni - storia, questa, completa di sospetti molteplici, false piste, e con l'identità del colpevole che viene svelata non prima delle ultime pagine del libro. Questa vicenda di detection attraversa una geografia che potremmo definire moralmente intricata e ambigua, col passo sicuro di Chandler e uno spettro aromatico da Agatha Christie, il tutto mentre si sviluppa l'altra storia: quella dell'educazione magica del protagonista Daniel.
Educazione magica. Will Bill Weber insegna meditazione, pesca e attesa. Mott Stocker insegna droga: come produrla e come consumarla. L'asso del furto con scasso Bill Clinton (sì, avete letto bene) istruisce l'allievo su come violare ogni genere di serratura o allarme, permettendogli così di penetrare in particolari aree protette sparse sul pianeta e rendendosi pronto in questo modo alla smaterializzazione.
Per un po' di tempo Daniel fa squadra con il mago del poker Bad Bobby Sloane, col quale batte le autostrade d'America in cerca di opportunità di investimento che non possano essere ufficialmente controllate, avventure che culminano in un leggendario scontro d'azzardo con l'adorabile mascalzone Guido Caramba, in un passaggio di poker letterario che è classico quanto divertente, qui manifestando un'appassionata devozione a un gioco in cui la posta morale è elevatissima e giungendo a esiti paragonabili a Il maestro di go di Kawabata.
L'eclettico e dinamico genio Jean Bluer insegna a Daniel le arti del travestimento, ulteriore abilità che sconfina con l'illecito, già oggetto dell'odierno pubblico divieto a impersonare poliziotti, medici, avvocati, esperti di finanza e chissà cos'altro in futuro, incluso l'impersonare un Ordinario Cittadino. E finalmente Daniel arriva alla tappa dell'insegnamento di Volta stesso, il supremo controllore dell'AMO, il quale gli fornisce il segreto dell'Invisibilità. Qui non si tratta dei fin troppo secolari trucchi alla Wells, a base di indici di rifrazione e pigmentazione plasmatica, bensì delle assai note e da lunga pezza riverite tecniche che permettono di cessare di essere materiali.
E dunque Daniel è infine pronto per impegnare tutti gli insegnamenti che ha appreso nella sua metafisica Cerca del Graal, che ora si rivela inaspettatamente essere un furto a elevatissima tecnologia, avente un diamante da sei libbre (il Diamante) come bottino. Daniel vive in tempi ancora immaturi per i drammi cinematografici a base di tastiere elettroniche, download di emergenza e fughe cyber con il conto alla rovescia digitale nell'angolino dello schermo. Perciò egli impiega una tecnologia che grossolanamente possiamo definire ancora analogica (sorveglianza ottica, allarmi termostatici, griglie che rilevano ogni movimento) insieme a tecniche nondigitali che includono l'uso del gas nervino, del plastico e dell'invisibilità. Daniel riesce ad appropriarsi del Diamante e il Diamante si appropria di lui. Perché esso si rivela essere un passaggio a un altro universo e la vita di Daniel diviene la narrazione dell'occasionale incarnazione di un dio, quindi del tutto antagonista a una soluzione usuale, di quelle che comportano conforto per il lettore, bensì un esito che gli scrittori annoverano tra i favoriti: cioè l'apparizione di quella figura saggia e tipologica che è nota agli antropologi col nome di Trickster, agli alchimisti con quello di Ermete e ai giocatori di carte con quello di Jocker.
Apprendiamo tutto ciò soltanto alla fine del romanzo. Fino a quel punto, venuti a conoscenza di Daniel nel modo in cui l'autore ce lo ha descritto, siamo liberi di prenderlo alla lettera come una trasfigurazione narrativa di un'occorenza del reale, oppure come una metafora dell'illuminazione spirituale, o come la descrizione della mente in stato di inusuale esaltazione mentre si prepara a superare per sempre il ponte che lega l'Aldiqua e l'Aldilà. Ma da questo punto finale, che è la soluzione dello scrittore, tutte le possibili interpretazioni divengono corrette e legittime contemporaneamente, poiché ci rendiamo conto che abbiamo effettuato uno di quei viaggi perigliosi e indispensabili che la letteratura offre, e siamo stati condotti alle distanze lontanissime alle quali è giunto il personaggio che abbiamo seguito pagina per pagina, là dove lo attende l'ultimo passaggio, l'attraversamento dell'ultimo confine, in ciò di cui Wittgenstein suppose una volta che convenisse tacere e su cui Eliphas Lévi - dopo avere enunciato "conoscere, volere, osare" quali leggi ultime della magia - ci suggerì di mantenere il silenzio.

[traduzione di Giuseppe Genna]

Pynchon: Per un'epica fuorilegge

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